Matilde
Testo di: Federico Ciriminna
Illustrazioni di: Midjourney
Di notte tutto era fermo, immobile, solo le luci lampeggiavano a un ritmo completamente imprevedibile. La Luna controllava la città come per assicurarsi che tutto fosse al suo posto. La sua luce era la più grande e la più lontana, e chissà cosa sarebbe successo se un giorno avesse deciso di avvicinarsi. Avrebbe sicuramente distrutto ogni cosa. D’altronde l’uomo, come insegna il mito di Icaro, non può avvicinarsi troppo a chi è più grande di lui, a chi lo trascende, pena: una rovinosa caduta negli inferi. È meglio mantenere una certa distanza con tutti, specialmente con chi è troppo.
Camminavo tra delle anonime strade che mi offrivano il superpotere dell’invisibilità, nessuno si sarebbe mai accorto della mia presenza, nessuno avrebbe saputo riconoscermi, neanche sotto tortura. Di notte erano in pochi a uscire dal proprio guscio domestico, infatti le strade erano popolate di sbandati e tormentati che non riuscivano a darsi pace, e io ero uno di loro, mi chiedevo perché dovessi muovermi, mangiare, bere, parlare, pisciare, cagare, perché ero obbligato, giorno dopo giorno, a ripetere tutte queste azioni senza sentirmi mai davvero appagato. Volevo parlare con qualcuno, ma le uniche persone che sporadicamente sentivo erano nel mondo dei sogni, in tutti i sensi, i miei turbamenti erano distanti anni luce dal loro vissuto, parlargli era solo fiato sprecato che si andava a sommare a tutte le altre insignificanti azioni quotidiane.
Mi fermai in un bar e ordinai una birra, nella speranza di trovare qualcuno con cui parlare, sentivo di averne davvero bisogno, mi sarebbe bastata una persona che avesse voglia di ascoltare e darmi un parere, anche il più banale del mondo, l’importante era parlare con qualcuno. I volti degli avventori erano lunghi e arcigni, scandagliavano il bar con aria stanca, ero sicuro che mi avrebbero divorato se avessi anche solo provato a rivolgere loro la parola.
«Perché devo vivere?» fui allora costretto a chiedere al barista che era l’unico a mantenere una parvenza di umanità, forse obbligato dal suo ruolo.
«Tutti vivono» mi rispose in tono sbrigativo mentre asciugava un bicchiere.
«Non è una buona motivazione» ribattei con la voglia di innescare una discussione.
«Invece sì» mi rispose convinto. «E ti conviene sbrigarti a capirlo.»
Entrò in una porticina alle sue spalle e scomparve per qualche minuto. Quando tornò mi era passata la voglia di parlargli, lasciai i soldi sul bancone e me ne andai.
Presi una stanza in un motel e chiamai Matilde, la mia prostituta-amica, così mi piaceva definirla. Non l’avevo mai sfiorata, passavamo ogni nostro incontro a parlare, eppure la sua tariffa con me, al posto di essere più bassa, era addirittura superiore. Una volta le avevo chiesto il motivo.
«Faccio più fatica a parlare con te che a scopare» mi aveva risposto.
Quella notte Matilde era di pessimo umore, aveva litigato con un cliente e aveva poco tempo da dedicarmi. Me ne infischiai e cominciai a raccontarle che non riuscivo a entrare davvero in contatto con nessuno, che tutti mi sembravano distanti da me, che stavo bene da solo, ma che a un certo punto il mio io aveva cominciato a divorare se stesso, e se continuavo così il mio cuore avrebbe cessato di battere, per volere della mia mente.
«Cosa ne pensi?» le chiesi urlandole in faccia il mio dolore.
Lei mi guardava in silenzio, come un ornitologo che osservi il comportamento di una dendroica cerulea. Scosse la testa e, per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti, mi diede la mano.
«Questo è tutto quello che posso fare» mi disse accennando un sorriso.
Sentivo il calore della sua mano salirmi sul braccio ed espandersi in tutto il corpo, fino alla punta dei piedi. Feci un lungo respiro e cercai di calmarmi, concentrandomi su quel calore tanto simile a quello di una mano materna.
«Resta con me, stanotte» le dissi con gli occhi spezzati dalle emozioni che si mescolavano dentro di me.
«Devo andare.»
«Stai qui almeno altri cinque minuti, ti prego.»
«Non posso.»
«Ti pago il doppio» le dissi disperato.
«Non mi interessano i tuoi soldi.»
Tolse la mano dalla mia e uscì dalla camera lasciandomi sprofondare nella solitudine.
Dentro quella camera l’aria si era caricata talmente tanto di tristezza e sconforto che era diventata irrespirabile. Salii sul tetto del motel e guardai la città dall’alto, dove tutto era cominciato. Nonostante le mie pupille dilatate accogliessero le luci, mi resi conto di non stare vedendo nulla per davvero. Lì fuori c’erano persone simili a me, ne ero certo, magari proprio sul tetto di qualche palazzo che guardavano dall’alto la città, alla ricerca di qualcuno con cui annullare le distanze.
L’unica soluzione era un’esplosione che disintegrasse l’aria, solo in quel modo saremmo stati tutti davvero vicini.
Che atmosfera! Bellissimo